Una photozine salverà il fotogiornalismo? Intervista con il fotogiornalista Sean Rayford

Sean Rayford è un fotogiornalista freelance statunitense. Collabora con testate e agenzie di primo piano (Getty Images, The New York Times, The Associated Press e The Wall Street Journal), documentando le principali storie del sud degli Stati Uniti. L'ho scoperto grazie al concorso "The Angry Whale Photo Zine Awards" che ha lanciato per le "photo zine", che mi ha incuriosito molto. Così gli ho chiesto la disponibilità per una breve intervista.

Foto in bianco e nero del fotogiornalista Sean Rayford trasportato dalla folla ad un concerto. Fotografia di Kati Baldwin
Sean Rayford. Foto Kati Baldwin

Ciao Sean, grazie per la tua disponibilità. 
Sul tuo sito ho trovato il termine "web zine" riferito a "The Angry Whale". Puoi spiegarmi cosa intendi con questo termine e quali sono le differenze rispetto a un sito web, un blog o un photoblog?

Sean Rayford: Prima di iniziare a pubblicare con regolarità storie fotografiche sui miei siti, realizzavo una zine musicale dedicata a punk, indie e metal, che si chiamava proprio The Angry Whale (quasi vent’anni fa). Quando ho iniziato a raccontare storie fotografiche online, l’ho fatto nello stesso spirito delle mie zine cartacee. E come fotogiornalista, mi sembrava più coerente continuare con quel linguaggio: “blog” o “photoblog” non bastavano. Venendo dal mondo dei quotidiani, ho sempre visto le riviste come una forma di giornalismo più lenta, ma con maggiore attenzione alla fotografia.


Io ho sempre pensato alle fanzine* come a strumenti per la diffusione della cultura cosiddetta alternativa. Tu, invece, riservi loro un ruolo nel fotogiornalismo e nella fotografia documentaria. Puoi approfondire questo aspetto?

SR: Se in questa domanda cambiamo "fanzine" in "zine", ti direi che le mie zine sono veri e propri progetti di fotografia documentaria, in cui applico le competenze e l’esperienza che ho maturato come fotogiornalista. Questi progetti mi permettono di raccontare storie senza la pressione delle scadenze editoriali o dei vincoli più rigidi del giornalismo.

Una delle mie zine è dedicata ai "mud bogs" del profondo sud degli Stati Uniti; un’altra a un piccolo locale di musica indie della stessa zona. I "mud bogs" rappresentano una cultura rurale e di nicchia legata alle gare automobilistiche su fango; la scena musicale, invece, è un concentrato di culture alternative. Prima di diventare fotografo a tempo pieno ho fatto il barista in un locale di musica dal vivo, e ancora prima lavoravo in un negozio di dischi dove realizzavo zine insieme a colleghi e amici. In tutti questi ambienti ho respirato cultura alternativa.

Contemporaneamente, lavoravo come freelance per giornali locali, il che mi ha dato uno sguardo più ampio sul mainstream, pur non sentendomene parte. Ma grazie a quell’esperienza ho iniziato a conoscere davvero le persone della Carolina del Sud, che fino ad allora per me erano un mistero.


[* Nelle domande avevo usato photozine e fanzine come sinonimi. Sean mi ha fatto notare che non lo sono e mi sembra utile riportare la sua spiegazione, molto chiara: "io non considero le mie pubblicazioni come fanzine, bensì photozine o semplicemente zine. Per me, le fanzine sono zine dedicate a una persona, a una squadra o a un gruppo perché chi le crea (o chi le legge) è un fan – nel senso letterale di "fanatico" – di quel soggetto. Ad esempio, ho una fanzine che qualcun altro ha dedicato a Kurt Cobain dei Nirvana.

Per come la vedo io, le fan-zine, le photo-zine e le per-zine (zine personali) sono tutte sottocategorie del termine più ampio "zine". Detto questo, potrei anche realizzare una “photo fan zine” se fotografassi Taylor Swift e fossi un suo fan (cosa che, in realtà, non sono). Ecco una delle cose più belle delle zine: non ci sono regole. Per esempio, ho visto alcune zine fotografiche di club calcistici britannici che si potrebbero tranquillamente definire fan photo zine." Ho quindi rieditato le domande utilizzando il termine photozine o fotozine al posto di fanzine]

Alcune delle photozine stampate in proprio dal fotogiornalista Sean Rayford
Alcune delle photozine prodotte da Sean Rayfors. Le puoi acquistare sul suo sito

Quest'anno hai lanciato la prima edizione del "The Angry Whale Photo Zine Awards". Perché hai ideato questo concorso e cosa ti aspetti?

SR: Lo scorso anno ho partecipato a diversi zine fest e in un paio di occasioni ero l’unico fotografo presente. In altri casi, c’era giusto un altro fotografo oltre a me. Eppure le zine sono un’ottima occasione per pubblicare fotografia! Vorrei vedere più fotografi coinvolti, e costruire (o trovare) una comunità con cui condividere questo percorso.

Per farlo ho dovuto testare diverse stampanti e superare mesi di difficoltà tecniche, solo per trovare il modo giusto di stampare fronte-retro su una carta abbastanza pesante da rendere giustizia a una photozine.

Non ho aspettative precise – il mio lavoro da fotogiornalista mi ha insegnato a non averne. Quello che spero, però, è di imparare a fare meglio le cose, ogni volta.


Non ti sembra un po' anacronistico puntare così tanto sulle photozine nel XXI secolo? Il solo fatto che siano cartacee ne limita la diffusione. Abituati all'immediatezza del web e dei social, cosa può offrire di più una photozine?

SR: Un anno fa ho tenuto una lezione all’Università del South Carolina e ho distribuito alcune delle mie photozine agli studenti. Alcuni di loro accarezzavano la carta con curiosità. Sembravano affascinati, come se fosse qualcosa di nuovo e straordinario – anche se, in realtà, non lo è.

Fare il fotografo a tempo pieno significa anche ritagliarsi spazi per progetti personali che mi sfidano e mi mantengono vivo. Dopo la democratizzazione della pubblicazione introdotta dai social, siamo stati sommersi da contenuti auto-pubblicati senza riflessione, senza progetto, senza cura.

La photozine, invece, è un segnale: dice al lettore che il fotografo ha investito tempo ed energie nel processo. E per questo dovrebbe essere considerata diversamente.

Fare una photozine è più impegnativo che pubblicare una foto su un social o su un sito. Ma queste sfide autoimposte mi aiutano a migliorare e a godermi quello che faccio. Oggi chiunque può scattare una foto. Se fossimo in un videogioco, realizzare una zine sarebbe come passare di livello: nessuno vuole giocare sempre al livello 1. Salire di livello è bello e gratificante.

Negli ultimi anni c’è stata una rinascita delle zine, quasi in risposta alla tecnologia digitale. Qui negli Stati Uniti, molte biblioteche stanno creando collezioni di zine. La National Gallery of Art ha acquistato una mia zine lo scorso anno, e la biblioteca della mia città lancerà una propria collezione quest’anno. Per me, sono segnali importanti.


Sei fotogiornalista da oltre 25 anni, collaborando con le principali testate statunitensi e agenzie internazionali. Coltivi da tempo la passione per le zine. Pensi che possano essere una palestra utile per un aspirante fotogiornalista?

SR: Non credo che le photozine siano una buona palestra per aspiranti fotogiornalisti, ma penso che siano fantastiche per i fotografi documentaristi.

Quando ho cominciato a pubblicare zine erano zine musicali: dovevo gestire collaboratori, immagini, layout, costi e stampa. Ero in contatto con moltissime etichette indipendenti americane, intervistavo e passavo il tempo con le band che ascoltavamo in negozio. Raccontavamo anche le visite locali di pensatori radicali. Il mio principale collaboratore era un laureato in giornalismo, ex stagista a Spin Magazine a New York. Era un’esperienza molto simile a una versione zine di Rolling Stone.

È stato un ottimo modo per imparare come funzionano i meccanismi della pubblicazione e quali responsabilità si hanno verso i propri collaboratori. Ma ho avuto anche l’esperienza del giornalino universitario, dove per otto semestri sono stato photo editor.


In chiusura, secondo te una photozine potrà salvare il fotogiornalismo?

SR: Quando ho fatto uno stage presso un quotidiano della capitale della Carolina del Sud, c’erano 12 fotografi a tempo pieno. Oggi ne sono rimasti due. Non c’è più un photo editor. Le persone che difendevano il fotogiornalismo in redazione sono praticamente sparite.

Credo che l’intelligenza artificiale abbia più possibilità di salvare il fotogiornalismo. E la mia speranza è che le persone si rendano conto che i fotogiornalisti lavorano con dei paletti etici ben definiti, e che esistono archivi che lo dimostrano, alcuni risalenti a decenni fa.

Per salvare il giornalismo, serve un pubblico più istruito, con un minimo di alfabetizzazione mediatica. Serve saper distinguere tra i diversi media (tv, radio, stampa, web, social) e riconoscere i singoli soggetti che li compongono. Questo crea una domanda consapevole di informazione di qualità.

Forse pretendo troppo. Ma credo che gli americani debbano almeno saper distinguere tra The New York Times e The New York Post, e tra un video su TikTok pubblicato da un account qualsiasi e l’articolo scritto da un giornalista locale che da 30 anni segue le questioni ambientali del territorio.

Grazie, Sean

Grazie a te, Sean, per il tempo che mi hai dedicato. E ti do già ora appuntamento a fine settembre per condividere le più belle fotozine selezionate dal "The Angry Whale Photo Zine Awards".

Puoi seguire il lavoro di Sean Rayford sul suo sito, sulla piattaforma Soda Citizen (focalizzata su progetti di fotogiornalismo e alla fotografia documentaria), sul suo canale YouTube (ricco di video veramente interessanti, soprattutto se ami il fotogiornalismo) e sul suo profilo Instagram "The Angry Whale".


Screenshot dal video "Charleston Zine Fest: Self Publishing for Artists" di Sean Rayford

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