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Fotogiornalismo: c'è un limite all'orrore?

Immagina di essere un fotografo inviato in una delle tante zone martoriate di questo povero pianeta.
Immagina che dalla redazione ti avvisino che è scoppiata una bomba in un mercato cittadino.
Immagina di arrivare sul posto prima dei soccorsi e di trovare corpi dilaniati e sopravvissuti disperati. Fotografi questo inferno e mandi il tutto al tuo caporedattore.

Immagina, ora, di essere il caporedattore: hai avvisato il tuo fotografo e aspetti le fotografie.
Immagina di essere seduto alla tua postazione: le fotografie sono arrivate e molte sono sconvolgenti.
Immagina di dover scegliere quali fotografie pubblicare: tocca a te decidere cosa mostrare di quell'orrore, e cosa nascondere.
Nelle parole di Russel Boyce, Chief Photographer dell'agenzia Reuter per l'Asia (Just how brutal should a picture be?*):
La brutalità di queste scene deve essere allargata a tutto il mondo, o deve essere circoscritta a quelli che sono sul posto - le vittime, anzitutto, i passanti, i giornalisti e la polizia presente sul posto? E se la tua risposta è "no", che senso ha mandare dei giornalisti in questi luoghi? Dobbiamo nascondere queste immagini? E noi che lavoriamo nell'informazione, abbiamo la responsabilità di mostrare le cose come stanno - per me la risposta è "sì, lo dobbiamo fare". E il fatto che questo fosse un attacco ad un ospedale fa una differenza sul livello di durezza delle immagini che debbono essere mostrate? Per me, sì.
Probabilmente tu non sei d'accordo.
La gente si aspetta la verità e, in quanto giornalisti, dobbiamo riportare la verità, non importa quanto brutta questa sia.
Personalmente ritengo che - nel rispetto della correttezza dell'informazione - nulla debba essere nascosto: i fotografi devono avere "anche" il coraggio di "prenderci a cazzotti" e, a rischio di provocarci conati di vomito, mostrarci cosa vuole dire la guerra, il terrorismo, l'odio, la sofferenza, la fame, la malattia, la persecuzione, la paura.

Qualcuno dirà (o ha già detto) che immagini così forti non sono necessarie, che un evento può essere documentato in altri modi, con (e questo è il mio commento) "espedienti" fotografici che diventano metafora della realtà.

Personalmente, come detto, non condivido questa impostazione, ma ogni volta che ne parlo (vedi sotto) mi fermo a riflettere.
gio.bi


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