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Fotogiornalismo, etica e il premio di Kevin Carter

Maurizio G. De Bonis, nel già citato articolo "Prove di dialogo sulla fotografia italiana", accenna anche al rapporto tra fotogiornalismo e etica.
Una premessa: prima di proseguire, per contestualizzare le affermazioni di De Bonis vi invito a leggere tutto l'articolo citato (fra l'altro interessante sotto molti aspetti).
De Bonis scrive:
Dal mio punto di vista, ciò che avverto come terribile nel fotogiornalismo italiano, e non solo, è la mancanza totale di etica fotografica. E questa mancanza totale è a mio avviso generata dall’atteggiamento colonialista di molti fotografi, [...] La logica è la seguente: si fotografa il dolore e la fame per allontanarle da noi, per poter dire a noi stessi che quello che succede in Darfur o in Congo, in Europa o negli USA non potrà mai accadere. Come è gratificante sentirsi parte del mondo ricco… [...] Molti fotogiornalisti farebbero molto bene a riflettere su quello che fanno (cioè non informano ma volgarmente rappresentano generando fraintendimenti) e a cercare di capire che avere atteggiamenti da star (vantandosi di essersi messo un elmetto in testa o di essere riuscito a fotografare l’agonia di un essere umano che sta morendo di fame o una bambina prostituta) non produce né informazione e neanche cultura fotografica.
Il tema (etica e fotogiornalismo) è interessantissimo e di sicuro non lo risolveremo ne ora, nè probabilmente mai, ma -poichè non condivido questa affermazione- provo a proporre qualche spunto critico .

Il tema della necessità/opportunità di fotografare un "essere umano che sta morendo" esplose drammaticamente nel 1993, quando il The New York Times pubblicò la drammatica fotografia di un'avvoltoio e di una bimba sudanese gravemente denutrita, foto che di lì ad una anno avrebbe consegnato il Premio Pulitzer al suo autore (il fotografo Kevin Carter).
La fotografia, che documentava in modo brutale le conseguenze della seconda guerra civile in Sudan, scatenò violente reazioni contro il fotografo, accusato di non aver fatto nulla per salvare la bambina. Doveva o non doveva scattare quella fotografia?

Carter una risposta l'aveva già data. A metà degli anni '80, infatti, dopo aver assistito e fotografato la brutale esecuzione di un uomo con il sistema del "collare", si era così espresso:
Ero sconvolto da ciò che stavano facendo. Ero sconvolto da quello che stavo facendo io. Ma poi la gente ha iniziato a parlare di quelle foto... allora ho pensato che forse le mie azioni non erano state affatto cattive. Essere testimone di qualcosa di così orribile non era necessariamente una cosa così brutta da fare. (1)
Il che richiama immediatamente le parole di James Nachtwey:
Sono stato un testimone e queste immagini sono la mia testimonianza. Gli eventi che ho registrato non devono essere dimenticati e non devono essere ripetuti.(2)


Entrambi i fotografi pongono, alla base della propria attività fotogiornalistica, la necessità di testimoniare ad un pubblico più vasto alcuni fenomeni, terribili, affinchè diventino di pubblico dominio, non siano dimenticati e possano non ripetersi.

La logica, quindi, non sembra essere quella di gratificarsi sentendosi parte del mondo ricco, come afferma De Bonis, quanto piuttosto quella di testimoniare al mondo ricco che la sua condizione di benessere è un privilegio (o un dono) immenso e raro. O, per dirla con le parole del fotoreporter Reza Deghati:
Questo è il messaggio che i fotografi dovrebbero trasmettere a tutti: "Ehi! Svegliatevi!".

L'immagine che ho è che i Paesi ricchi del mondo sono come un grande Titanic, dove tutto è disciplinato. Ci sono stanze diverse - prima classe, seconda classe -, c'è un posto per dormire e tutto funziona. C'è un cuoco fantastico e tutti i tipi di ristoranti, una sala concerti e c'è l'intrattenimento, tutto in questa nave. Tutto va bene e la gente si diverte.

Anche noi fotoreporter viviamo su questa barca. A volte facciamo un salto fuori per vedere cosa succede e scopriamo che... Mio Dio, questa barca sta navigando in un oceano di fuoco e sangue, ovunque. La gente sta morendo. Vivono in condizioni orribili. In mezzo all'oceano si aggrappano, con la famiglia, a qualche pezzo di legno rotto per cercare di stare a galla, mentre il Titanic si muove intorno a loro, a volte distruggendoli. Noi parliamo con queste persone e scattiamo qualche foto, poi torniamo al Titanic e cerchiamo di mostrare le nostre immagini dicendo: "Aspettate un attimo! Fermatevi! Fermatevi! Guardate cosa sta succedendo!". Ma lo chef continua a servire il cibo e i passeggeri ci guardano e dicono: "Lasciami in pace, sto mangiando il mio cibo. Sto stappando lo champagne".

Il motivo per cui lo facciamo è salvare entrambi i gruppi di persone: quelli che si trovano nell'oceano di fuoco e sangue e quelli che si trovano sul Titanic. Se le persone sul Titanic non si preoccupano delle persone che soffrono nell'oceano, il Titanic sarà colpito. Sarà colpito. Ci sono troppe persone in fiamme e sangue in tutto il mondo. Ci sono troppe persone che soffrono.(3)
Poichè De Bonis nell'articolo citato ha solo accennato a questo vastissimo argomento, mi piacerebbe molto che tornasse ad affrontare - in modo più ampio - il rapporto tra etica e fotogiornalismo.

Ciao
Giovanni B.


(1) "I was appalled at what they were doing. I was appalled at what I was doing. But then people started talking about those pictures... then I felt that maybe my actions hadn't been at all bad. Being a witness to something this horrible wasn't necessarily such a bad thing to do."

(2) "I have been a witness, and these pictures are my testimony. The events I have recorded should not be forgotten and must not be repeated."

(3) This is the message that photographers should convey to everybody: 'Hey! Wake Up!'
The image that I have is that the rich countries in the world are like a big Titanic where everything is regulated inside. You have different rooms – First-Class, Second-Class – you have a place to sleep and everything is working. There is a fantastic chef and all kinds of restaurants, a concert hall, and entertainment, all in this boat. Everything is fine and people are having fun.
We, the photojournalists, are also living on this boat. Sometimes we jump out to go and see what is happening outside. What we find is that... My God, this boat is sailing in an ocean of fire and blood, everywhere. People are dying. Living in horrible conditions. Just holding onto some broken piece of wood with a family in the ocean, while the Titanic is just moving around them, sometimes even destroying them. So what we do is talk to these people and take some pictures, then we go back to the Titanic and we try to show our pictures, saying, 'Wait a minute! Stop! Stop! Look what's going on!' But the chef goes on serving the food and the passengers look at us and say 'give us a break – I'm eating my food. I'm opening the champagne.'
The reason why we are doing this is to save both of these [groups of] people – [those] down in the ocean of fire and blood and also the people on the Titanic. If the people on the Titanic don't care about those people suffering in the ocean, the Titanic will be hit. It will be hit. There are too many people in fire and blood all over the world. There are too many suffering.

(Post pubblicato il 19.12.08, alle 19.05, e aggiornato il 20.01.20)

Commenti

  1. Le problematiche connesse ai rapporti tra etica e fotogiornalismo sono estremamente complesse e purtroppo i fatti dimostrano come a rispettabilissime affermazioni del tenore di quelle citate, non sempre corrisponda un coerente comportamento reale.
    E quel che possiamo vedere è abbastanza grave, purtroppo...
    Esempio 1

    Esempio 2

    Esempio 3

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